I romanzieri dovrebbero essere eccessivamente ambiziosi. Dovrebbero sempre sentire che stanno facendo qualcosa  di troppo grande per loro […] E’ così che il romanzo si guadagna la sua vita. Un romanzo scritto da qualcuno che si autoproclama “esperto” – un romanzo che non è stato percepito, nel corso della sua scrittura, almeno saltuariamente, come un fallimento – può essere ben fatto, e può anche essere  un “buon” romanzo, ma probabilmente non sarà profondo. E’ probabile che somigli a un carillon svizzero nel quale una piccola ballerina salta fuori e danza Per Elisa, piuttosto che alla furiosa, scomposta, misteriosa creatura che un romanzo dovrebbe essere.

(…)

Un romanziere – qualunque romanziere che io ammiri – si muove in un equilibrio spericolato fra la tracotanza e la negazione di sé. Devi avere abbastanza fiducia in te stesso da scrivere quello che stai scrivendo, e da credere che valga la carta su cui è stampato. E nello stesso tempo devi sottometterti alle tue storie, ai tuoi personaggi, alla tua arte. Sono sicuro che noi tutti abbiamo letto libri il cui primo fine è quello di mostrare l’abilità dello scrittore, di asserire una volta e per tutte che lo scrittore in questione è più brillante e pieno di talento di quanto osassimo immaginare. Non so come la pensiate, ma trovo questo genere di esperienza di lettura piuttosto vuota.

(estratto da Michael Cunningham, Lectio magistralis “Il Lettore, Lo Scrittore, Il Traduttore”, pubblicata su Domenica – Il Sole 24 ORE del 13 giugno 2010)