A Monza, alla Torretta di via Lambro, c’è questa mostra: DI LU y RE. Dal 15 giugno al 13 luglio. Mette insieme lavori di Diego Brambilla, Luca Melzi (http://lucamelzi.com/) e di un certo Renato Rossetti che su questo blog si fa chiamare Paperossi. Provo a inquadrarla, partendo da molto lontano.

 

Parto dal mio ultimo chiodo fisso. La questione dell’identità. Chi sono? Chi siamo?

                                                       COME ESSERE UMANO

Mi inquietano i cambiamenti rapidissimi della realtà in cui viviamo. Mi chiedo se  la  natura umana, frutto di un’evoluzione lentissima, durata milioni di anni, possa farvi fronte.

 L’adattamento forzoso comporta spesso passività, l’andare avanti per slogan, la frammentazione della vita  in attimi, l’impossibilità di uno svolgersi fluido  delle nostre identità. Molti diventano, per reazione, attori di cose minime, esibizionisti dell’accessorio.

                                                    COME ARTISTA

L’arte segue il nostro modo di essere. O la nostra perdita d’identità. Ne deriva un’arte fatta di frammenti, di momenti, senza punti di vista, senza metafore, senza racconto. L’arte diventa registrazione di momenti, puro accadimento, turismo delle emozioni.

Naturalmente, per fortuna, ci sono ancora gli artisti e, in rari casi, gli artisti geniali. Quasi tutti detestano o dicono di detestare Freud (Lucian) e Bacon,  Hirst e Cattelan, ma questi artisti fanno quello che la grande arte ha sempre fatto. Manipolano l’immaginario collettivo e soprattutto ci interrogano. Ci interrogano su quello che siamo.

                                                    QUESTA MOSTRA

Tre operatori della figurazione si dividono uno spazio strano, molto particolare, che determina un dialogo forzato fra modi diversissimi di concepire e rappresentare la realtà. Provano anche qualche  esperimento di “collisione”, all’interno di uno stesso lavoro (Renato che rielabora la  fotografia di Diego che riprende un fiore con un dipinto  di Luca sullo sfondo).

Diluire. Forse per dialogare (o per provarci). Forse per mettere alla prova le nostre identità. Forse non ci siamo riusciti. Bisognava provare.

Un sentito grazie soprattutto a  Luca, che ha fortemente voluto questa mostra.

 

Allego un raccontino che ho scritto molti anni fa e un’illustrazione del momento culminante di questo racconto. I puntini di Porcu appaiono come una sterile registrazione di segnali. L’artista vive apparentemente in un mondo a parte, ma è sintonizzato su di noi. Alla fine i puntini si raccordano, trovano un loro magico significato: la domanda a cui dobbiamo rispondere.

(chi fosse interessato a leggere altri miei raccontini li trova all’indirizzo http://www.paperossi.altervista.org/html/raccontini.html )

 

 

 

 

Porcu

Dietro un pilastro all’ esterno del centro commerciale Cristallo c’era, tutti i giorni, un ragazzo biondo allampanato dall’ apparente età di trent’anni che spacciava per coca bustine di farina. Aveva un aspetto dignitoso  e  triste e  anche i più  teppistelli dei  ragazzini del quartiere si erano abituati a rispettarlo. Gli  passavano  davanti  facendo  finta  di  niente  oppure,  con aria molto sospetta e passo  felpatissimo, dapprima si nascondevano dietro   il      pilastro        che   fronteggia la fermata del trentaquatto e poi, gatton gattoni ma fulmineamente, si avvicinavano a Porcu (detto anche il dealer) e scambiavano una banconota di grosso taglio con una o due  bustine   di   farina.   Al   termine   di   ogni   operazione  il  dealer tirava  fuori dalla tasca posteriore del jeans un quadernetto dalle pagine ingiallite, lo apriva con cura meticolosa e vi tracciava con lentezza esasperante una fila di puntini quasi invisibili. Quasi sempre tracciati in orizzontale, a volte in verticale o in obliquo (una sola volta lo si vide tracciare una fila di puntini  a  serpentina,  ma  forse  quel  giorno Porcu non si sentiva bene). I puntini tracciati al termine di ogni scambio farina-banconota non erano quasi mai più di sette o otto, ed era assolutamente impossibile prevedere dove sarebbe cominciata la prossima fila di puntini. Certo era che Porcu utilizzava un foglio di quaderno per ogni anno solare e che alla fine dell’anno la nebulosa di puntini avrebbe formato un disegno architettonico preciso e silenzioso, classico e fascista, spettrale e dechirichiano come le vie del centro di Latina.

Erano anni che Amedeo osservava e studiava    

                                                                      tutto ciò.       

                                                                   

 

Il porticato in cemento armato del centro commerciale Cristallo era controllato, giorno e notte, da una serie di telecamere collegate con l’ufficio dei vigilantes dell’Europol.

Il dottor Amedeo Tronchetti era da tre anni il capo dei vigilantes.

 

Carriera anomala la sua. Era stato ufficiale dello Stato Civile a Milano, dove studiando il pomeriggio e seguendo qualche corso serale, si era laureato in Qualcosa. Ai corsi serali conosce Mimosa.

Mimosa Bisio, milanesona efficientista, titolare di un’agenzia matrimoniale, dentro una scorza tostissima e aspra nascondeva    una      liquida cremina da pandoro  farcito. Insomma una vera stronza.

Non     si    sposarono,     ma condivisero per qualche anno un piccolo appartamento e qualche effetto personale.  In quegli anni l’agenzia matrimoniale si trasformò in agenzia d’investigazione  specializzata  nel perseguitare mariti infedeli. Veniva così sfruttata, in modo (diciamo)  creativo,  una  nicchia  di mercato-miniera d’oro, sapientemente scoperta e curata in anni di lavoro irreprensibile e quasi filantropico. In pratica si utilizzavano gli stessi dati e notizie subdolamente carpiti ai clienti prima del matrimonio, suddivisi, catalogati e studiati con rigore scientifico e sadismo     da entomologo e  metodicamente archiviati. Lavorando per la “Bisio & C. investigation”, Amedeo, che nel frattempo aveva abbandonato il suo impiego al Comune di Milano, aveva cominciato a familiarizzare con microspie e telecamere a circuito chiuso. Quando, dopo una lite furibonda, Mimosa lo cacciò di casa, Amedeo, che in qualità di C.  possedeva lo zero  virgola zero uno per cento del capitale della Bisio & C., fu costretto dalla necessità a cercarsi un lavoro. Spedì il curriculum agli indirizzi più disparati ed esso finì nelle mani del direttore dell’Europol, che era anche il principale azionista del Centro Commerciale Cristallo. Si trasferì a Latina.

 

 

Eccolo dunque ad osservare la faccia livida ed assente di Porcu. E, su altri monitor, Porcu di profilo, visto da dietro e da altre due o tre angolazioni. Porcu by night.

In genere Porcu non faceva le ore piccole.  Verso le dieci di sera di inverno e verso mezzanotte d’estate  lasciava il suo posto d’osservazione e di spaccio per dirigersi verso il chiosco del pizzaiolo Spizzico,  dove lo si vedeva trangugiare con straordinaria velocità una pizza al gorgonzola.  Poi    dritto a casa, un piccolo appartamento in un grazioso condominio non molto distante dal centro.  Abitava lì da quando  la madre olandese,   separata dal padre sardo, lo aveva portato a Latina,  dove aveva trovato un posto da operaia in un’industria casearia.  Terminato il liceo,  Porcu si dedicò,  anima e corpo,  allo spaccio  di bustine di farina. Naturalmente la polizia lo aveva perquisito innumerevoli volte,   pensando   che   si     trattasse    di     altro,      ma     tutte le volte aveva trovato solo bustine malamente confezionate contenenti farina. Pare che quello strano commercio gli rendesse bene: si diceva che Porcu fosse miliardario.

 

**

 

Da un po’ di tempo era diventato malinconico e aveva   perso  completamente l’aria furbetta che aveva quando era più giovane. Gli occhi, che una volta si intrattenevano a osservare i passanti con sorriso allusivo, sottinteso, sopravvolante da Gioconda coi baffi, quegli occhi che un tempo avevano lampi luciferini, erano ormai privi di luce, assenti, persi nel vuoto. Era ancora capace di chiedere  ai  passanti  l’orario ( non portava mai l’orologio ) e se qualcuno gli chiedeva qualcosa ( tipo: che ore sono – risposta: non ho l’orologio,  da che parte è la stazione o c’è una farmacia da queste parti) e persino se attaccavano bottone parlando del tempo o del traffico, lui rispondeva con aria distaccata e signorile. Ma lo sguardo… Lo sguardo non era più lo stesso. Aveva anche cominciato ad attardarsi sempre di più, e a volte restava lì, in piedi vicino a quel pilastro, per tutta la notte.

 

 

***

 

 

Amedeo era entrato quella sera dall’entrata di servizio per i fornitori.

 Gli immensi spazi del Centro Commerciale Cristallo erano immersi nella penombra: a distanza di decine di metri l’una dall’altra poche lampadine incastrate nel soffitto erano state lasciate accese per la notte. Alte torri decorative in legno, sormontate da insegne al neon ora spente, svettavano ieratiche a delimitare gli spazi e a proteggere di sguardo benevolo le bombolette di schiuma da barba al mentolo, i frigoriferi, le meraviglie dell’era digitale, le frivolezze griffate del cheap and chic e dell’expensive and trash.

 

La stanza dei monitor era illuminata a giorno. Maurizio, la guardia giurata che doveva fargli compagnia quella notte, se ne stava stravaccato su una comoda poltrona girevole con i piedi appoggiati ad una scrivania. A tre o quattro metri dalla stanza dei monitor si delineava agli occhi di Amedeo un perfetto quadro   postumo   di   Edward    Hopper   in    cui   faceva   una magnifica figura la lattina di Coca Cola lasciata sulla scrivania a poca distanza dai piedi di Maurizio e la tazza lasciata a terra da una guardia giurata di madre inglese. Il tutto era completato dalle alitate grevi di vissuto che uscivano a ondate da quella stanza.

 

Maurizio era al telefono che parlava con la sua ragazza e lo degnò appena di uno sguardo distratto. Leggermente imbarazzato, Amedeo decise di togliere il disturbo e per darsi un contegno andò a prendere una bibita gassata al distributore automatico. Spense la luce e si diresse verso l’antro illuminato a giorno dei distributori automatici di junk food.

 

Rientrò quindi nella stanza dei monitor. Maurizio non era più al telefono, ma non lo degnò questa volta del minimo sguardo. Con la lattina di Coca Cola ben stretta nella mano sinistra Amedeo si sistemò pigramente al suo posto. Avvicinò lentissimamente la lattina alle labbra e dopo aver preso un altro sorso della schiumazza dolciastra distese bene la schiena in modo da fondere il midollo osseo con le dondolanti strutture di sostegno della poltrona girevole. Lo sguardo di Porcu, sullo schermo del monitor, sembrava pienamente partecipe del tiepido spessore di quel vuoto.

 

***

 

Guardò l’  orologio: erano le due e cinquantanove, le tre. Doveva aver dormito. Gli sembrava di aver sentito la voce di Porcu. Si sforzava di ricordare le parole, guardava in alto alla ricerca di brandelli di frase evaporati dal cervello e sospesi, anzi appesi, nell’aria densa della stanza. No, niente.  Si alzò, si diresse speditamente, meccanicamente, verso il distributore automatico di caffè, inserì la chiavetta, pigiò il bottone e mentre aspettava il caffè percepiva il ronzio dolce e deciso di quell’automa come se provenisse da una remota zona buia del cervello. Appoggiò la schiena al muro: si sentiva anche lui caldo, denso e liquido come la ciofeca che scendeva nel bicchiere di carta. Un pensiero da brivido provvide a svegliarlo: aveva identificato, per un istante, solo  per un istante, i  modi  dolci  e decisi   di      quell’automa  – “prendi un caffè e riparti di slancio!” – con quelli, altrettanto dolci ma forse più perentori, di Mimosa. Sotto shock per l’assurdità di quel paragone, si chinò ed estrasse dall’urna il bicchierino con  il  liquido nero. Di nuovo  appoggiato  alla  parete  e sempre in modo automatico, ancora sotto shock, faceva girare il cucchiaino più che altro per sentirlo raschiare contro il fondo del bicchiere.  Chiuse gli occhi e fece   scivolare   il  caffè sulla lingua.   Sentì,    una a una,  le papille  titillargli  di  disgusto.   Alcuni neuroni del suo cervello,   con sincronismo perfetto,  cambiarono istantaneamente la loro forma da sferica a piramidale. Bene: lo schock era passato e non era il caso di fare le femminucce. Si tornava al lavoro: quella notte, lo sentiva, avrebbe finalmente scoperto qualcosa.

 

*****

 

Rientrare nella stanza dei monitor fu come penetrare in una nuvola densissima e grassa, una specie di gomma piuma, un brodo di dadi cinese rappreso da anni.

La luce bluastra si suddivideva  in   minute  goccioline  fluttuanti. Gli occhi di Porcu erano sinistri come non lo erano mai

stati. Amedeo, con le pupille, le papille e i neuroni  ancora titillanti e vigili, esitò un attimo accanto alla poltrona girevole. Si guardò le mani: le sentiva calde di calore vibrante, creativo.  Guardò attentamente il monitor che riprendeva frontalmente e in primissimo piano la faccia di Porcu. Vedeva chiaramente le pupille del dealer che si contraevano e si dilatavano, si contraevano e si dilatavano. Si sedette e appoggiò bene la testa allo schienale. Cercò di mantenersi calmo,  lucido. Il momento era importante e richiedeva la massima concentrazione. Con scatto fulmineo, quasi senza distogliere lo sguardo dal monitor, andò a prendere una penna e un block-notes dal cassetto della cancelleria, ritornando subito con uno   scatto   all’indietro.  Con   le   gambe   divaricate,    i     piedi puntati a terra, il busto eretto e gli occhi attentissimi a sintonizzarsi sul ritmo intermittente delle pupille di Porcu che si contraevano e si dilatavano,  col taccuino nella mano sinistra appoggiata su un ginocchio  e  la  penna  tra  il   pollice e l’indice della mano  destra sospesa  in  aria, stette,  tesissimo  e  immobile,  ma  pronto  a   scattare,  per   qualche  secondo.   Chiuse gli occhi.  Un’ondata tiepida proveniente dal monitor lo investì,  penetrando sotto  la  pelle,   entrando  nel sangue e in ogni organo,   rilassando corpo e psiche. Percepiva un battito ritmico sulle palpebre:   no,  non era il battito del suo cuore.  Aprì gli occhi,  guardò il monitor che gli stava  di  fronte  e  capì di essere perfettamente sintonizzato.   Non    restava    che    trovare    una     posizione     più     comoda.

 

Si sistemò con i piedi accavallati appoggiati alla scrivania e il taccuino sulle gambe. Restò fermo, in equilibrio precario di attesa, per qualche secondo, poi la mano destra fu presa da uno strano fremito e scivolò sul freddo foglio bianco. Con incredibile lucidità – una consapevolezza mai provata prima – tracciò la prima serie di sei puntini equidistanti. Ci fu poi una pausa, non avrebbe mai saputo quanto lunga. Rimase per un po’ – una decina di minuti, forse, o forse un’ora – più o meno cosciente di essere in attesa di altri segnali che lo avrebbero portato a tracciare altri punti. In quell’attesa c’era un affollarsi di pensieri, tutti i pensieri della sua vita,   sospesi   a contemplarsi in precisa e statica geometria.

 

 

 Le Madonne, tutte le Madonne del mondo – compresa la Madonna di Civitavecchia e la giovane sieropositiva piangente dall’angelico volto preraffaellita che aveva incontrato pochi giorni prima nei pressi della stazione di Bologna – avrebbero potuto inginocchiarsi davanti a lui e piangere a dirotto e lui non avrebbe  percepito che un debole lamento come sottofondo  di quel mare di

pensieri che gli occupava l’Universo. Per contro e similmente, se lo stesso Lucifero gli si fosse manifestato in tutto il suo nero splendore implorandolo di  vendergli l’anima,    Amedeo forse gli avrebbe sorriso, magari dicendo di sì e strabuzzando gli occhi in segno di approvazione, ma senza sentirsi minimamente tentato,   contento com’era di quella pensierosa immobilità.

 

E intanto là fuori, sotto il porticato del Centro Commerciale Cristallo, c’era quel povero diavolo di Porcu che era stato preso da un’improvvisa crisi di pianto e si lamentava disperato e singhiozzava e sembrava un bambino. Le telecamere lo riprendevano, ma né Maurizio, che dormiva beatamente da ore, né Amedeo, annullato dai suoi stessi pensieri, avevano occhi per lui. L’unica traccia di quella disperazione erano per ora i sei punti equidistanti tracciati da Amedeo.

Improvvisamente una rabbia furiosa si impossessò di Porcu. Cominciò a urlare. Urlava con forza sovrumana e l’aria, nelle strade del quartiere, nelle case e all’interno del Centro Commerciale Cristallo, era impregnata di quell’urlo. L’urlo penetrò nei sogni della gente, ma nessuno si svegliò. Anche il denso Universo di pensieri di Amedeo ne fu impregnato, senza che Amedeo se ne rendesse conto. La sua mano era sintonizzata sull’urlo  e tracciava, con velocità e precisione impressionanti, file orizzontali e verticali di puntini. I puntini si raggrumavano, si organizzavano, formavano linee, davano senso spaziale a un oggetto scattante, spinoso, spugnoso di infinite caverne. Nel breve e concitato volgere di un minuto si svelava, con definizione allucinata e allarmante, un Duomo di Milano con guglie altissime che si allungavano e divaricavano come braccia per  chiedere aiuto-a  e bestemmiare-contro un cielo denso di nuvole-pensieri di un Dio troppo assorto e troppo indifferente.

 

Un brivido freddo percorse lo stremato, annichilito Amedeo quando finalmente la  mano si fermò e poté contemplare il disegno. Riuscì a malapena ad alzarsi. Tutto tremante si trascinò, in quell’alba invernale livida, verso casa.

 

Il giorno dopo, fermandosi al bar per prendere un caffè prima di andare a lavorare, sentì che si parlava di quella specie di barbone trovato assiderato sotto il portico del Centro Commerciale Cristallo con in mano una cartolina raffigurante il Duomo di Milano.