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Fabbietto disse che i preservativi li avrebbe presi lui. O almeno così sembrava che avesse detto.

 

Il mattino era sempre concitato, tutto un correre qua e là, uno sbattere di stipiti, scrosciare d’acqua, borbottar di caffettiera, tintinnare di tazze e cucchiaini. Sopra tutto c’era il ritmo incalzante del tamburellare dei piedi sul pavimento, elemento unificante e di distinzione in fasi (piedi nudi, piedi con calzini, gran finale con scarpe) della jam session mattutina della durata complessiva di circa  tre quarti d’ora. Che naturalmente aveva infinite, calibratissime variazioni, impostate su un collaudato schema di base.

C’erano innanzitutto variazioni stagionali.

L’inverno era crudele, con quel passaggio brutale, ma di sublime espressività, dal tonfo  ovattato del piede calzettonato al passo militaresco (maschio?) dei boots invernali.

L’estate, al contrario, era leggera, ma non meno sensuale, col passaggio soft dal calzino di cotone al morbido mocassino. C’era poi, nei giorni della  grande calura, la variazione skin (due fasi anziché tre), col mocassino calzato direttamente sulla pelle umana.

Su queste variazioni si impostavano tutte le altre, dovute soprattutto ai cambiamenti d’umore, che Fabbietto gestiva con la collaudata capacità d’improvvisazione del perfetto jam sessionist.

 

Quello che a Osvaldo sfuggiva sempre (faceva parte della sua attenta, controllatissima, capacità di lettura creativa, cioè distratta, degli accadimenti quotidiani) era il finale.

Fabbietto faceva capolino dalla porta del soggiorno, lanciava il suo “io vado, ciao” e un sorriso (non si baciavano più, al mattino) verso un Osvaldo malconcio, ancora molto intorpidito, sdraiato in qualche modo tra il divano e una sedia a sfogliare il giornale. Immancabilmente, prima di sbattere la porta, Fabbietto si ricordava all’improvviso di qualcosa e lanciava un richiamo, una raccomandazione benevola (“ricordati di…”), che si perdeva, immancabilmente, inevitabilmente, irrimediabilmente, tra i meandri del corridoio e la bruma sonnacchiosa (che  diradava lentamente e non scompariva mai del tutto) della testa di Osvaldo.

Arrivava qualcosa, che a volte Osvaldo provava a ricostruire. Ma non appena ci provava, dimenticava anche di averci provato, solo aggiungendo un’ultima  eco a tutte le altre.

Quel mattino, però …

 

Quel mattino Fabbietto doveva aver detto: “Ah, i preservativi li prendo io!”. Aveva detto proprio così? Osvaldo si ricordò dei propositi porcelli della sera precedente.

 

  ***

Osvaldo si mise a cercare, di nuovo, nei recessi dell’anima, per provare a ricordare, a mettere in ordine quel perenne disordine, per provare (non si sa mai) a capire. Chi cerca trova. Non necessariamente quello che cerca. Anzi …

Fabbietto era capitato così. Si erano incontrati, come si dice, per sesso.  Fabbietto si presentò, in pratica, mentre il suo corpo nudo ansimava su quello di Osvaldo. Che dovette chiedersi, provando (non si sa mai) a capire,  chi fosse quello strano essere che, avvalendosi anche dell’espressività di un  corpo magro e nervoso, recitava la propria ponderosa biografia mentre faceva sesso con uno sconosciuto.

Durante la performance trovò, trovarono, un loculo, sistemato da qualche parte nella pancia di Osvaldo. Era un loculo confortevole e decisero di sistemarsi lì per qualche tempo. Osvaldo non ricordava di aver chiesto a Fabbietto di sistemarsi nel loculo. Forse sì. Comunque Fabbietto non si fece pregare. Sistemarono nel loculo le animucce e qualche effetto personale, mentre i corpi, che vivevano in città differenti, facevano vite separate (si incontravano nei  weekend).

Gli effetti personali si accumularono e il loculo si fece stretto. Dovettero aspettare diversi anni prima di poter vivere nella stessa città e metter su casa, a Milano, in quel piccolo appartamento. Lì sistemarono più confortevolmente  gli effetti personali e quel che rimaneva  (le animucce, due corpi, qualche mobile, i calzini spaiati, qualche coperta).

 

Messaggino (SMS): Fabbietto: “Ho comprato i preservativi”

 

Pensierino (di Osvaldo): “Allora avevo capito bene”.

 

***

Il piccolo “beep” del telefonino e quella frase così semplice, così “univoca”, ebbero l’effetto di richiamarlo alla realtà, che evidentemente esisteva davvero e riusciva persino a forare la spessa coltre di nuvolepensieri, il brodo di dadi interiore, il puro glutammato cinese, sparso di coronavirus tutto sommato innocui,  che produceva intorno alla testa quella specie di bruma anglo-milanese ….

Dunque esisteva davvero, la realtà. I pensierini si rappresero sul tavolo impiallacciato color betulla, sul computer ingombrante messo di sghimbescio per provare a dargli un aspetto streamlined, sulla tenda arancione a quadretti bucherellati dietro la quale traspariva il cielo di Milano (che si pronuncia, pare, cèlo di Milano), color cielo di Milano. Un altro brodo di dadi  cinese (puro glutammato   sparso), niente a  che  vedere, naturalmente, con  “o cìel’e Napule” e nemmeno, figuriamoci, con “u ciiil d Foggg”, “ch’ej tutt n’ata cos”.

Dunque le cose, quelle vere, con la “o” stretta. Le cose che si toccano, le cose che si fanno. Bisognava fare qualcosa, muoversi, lasciare quel divano.

I preservativi, fino a prova contraria, li aveva comprati Fabbietto. O almeno così era scritto nel messaggino.